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Tu lasci una sedia non lontana dal tavolo e in un battibaleno appare questo approfittatore, ghiotto di frutta, a controllare – ufficialmente – se le mele annurche siano veramente tali e se le gelée siano state ben schiumate e trasparenti. E’ un ladro matricolato, costui, che ormai si è abituato alla raccolta diretta di pomi, pometti, fragole, lamponi, uvaspina, albicocche.
E c’è da ringraziare se ancora non abbia assaggiato i ribes: i bianchi e rossi e neri che fan da confine col giardino dei vicini ad Est, giardino che il signorino tratta per suo e infatti abbaia quando i legittimi proprietari ci mettono piede. Proprio un bulletto screanzato.
Dicevo di gelée che questo prodigo autunno mi ha suggerito: il Malus John Downie, trionfalmente fiorito questa primavera, al termine di quell’inverno, che ha visto, il sette di gennaio, l’arrivo del rapinatore qui illustrato, non solo ha reagito agli afidi, trattandoli come un disturbo giovanile, ma è cresciuto e molto rinforzando il tronco principale, all’impianto un fuscello. E i fiori, così corteggiati dalle api, si sono spenti lasciando spazio ai frutti che, pur offesi da qualche grandinata, hanno tenuto botta, cicatrizzando le ferite.
Sono anni ormai che il Malus abita qui, chiedendosi, a ogni primavera, a ogni nevicata o gelata di maggio o di settembre, chi sia la minus habens che qui l’ha portato a radicarsi. Me lo chiederei pure io, se fossi in lui, ma ogni viaggio a Valdaora (Olang), da Obojes il vivaista, si rivela infido e si torna invariabilmente a casa con la macchina infrascata, spesso di piante trovatelle, già abbandonate nel compost.
Lo vedemmo, arbustino ma già bello, con i pometti su: fu amore a prima vista e fu così che lasciò per sempre il vivaio. Gli si fece un terrazzamento apposta, trattenuto da bellissimi sassi rubacchiati in Val Pusteria, luminescenti, e Piero gli scavò una buca d’impianto da cui estrasse massi e macigni che a rivederli in foto fanno impressione. Quando troverò le foto dell’impianto si vedrà un uomo alto un metro e ottantacinque, provato, fino alla cintola nel buco, largo e profondo.
Non lontano dal nostro rimpianto micio, che ora riposa vicino alla panchetta, davanti al muro degli agguati ai topini. Quanto mi manca il mio micio! Lo veglia una Thuya gettata nel cumulo del compost con altre sventurate sorelle: usate per un’esposizione e poi negletta, buttata via a marcire. Avessi avuto spazio le avrei prese tutte ma così non mi è dato e ne ho salvate due soltanto, di cui la seconda ha sofferto così tanto da essere ridotta, ora, a un unico smilzo fusto. Ma vivacemente vitale, in stretto abbraccio con due rosa rugosa Rotes Meer, le stesse che coi loro fiori mi profumano certe gelée rosate, fatte con le piccole mele del Malus John Downie.
Ma il colore più delicato è quello delle gelée ottenute dalle mele del Malus Ballerina, che rischiò molto sul terrazzo veneziano più alto e fortunosamente fu riparato qui, tenuto in vaso per qualche mese dal gentile vivaista, in serra, e poi piantato vicino alla Rosa New Dawn, grazie al cui cannicciato si scherma, l’inverno, dai freddi venti di Nord Ovest.
Le ho preparate, queste ultime gelée, in parte con della menta piperita, anch’essa oriunda veneziana, di quando chiesi e ottenni un rametto radicato al barman dell’Hotel Ala, a Santa Maria del Giglio.
Poiché per estrarre il succo per fare le gelée si mette a bollire, pian piano la frutta, a tocchetti completa di torsolo e semi e solo privata del picciolo, si ottiene una certa mole di polpa, che poi andrà lasciata a colare in una étamine sopra un contenitore adatto.
La Ferber suggerisce di farne delle composte speziate, che però durano poco in frigo e sono di un sapore e di una consistenza non proprio attraenti. Io ne fo delle confetture o, come qui – quelle rosso rubino – delle paste di frutta, dopo aver passato il residuo della colatura al moulin legumes ed averlo cotto per molto con dello zucchero, vegliando attenta che non si attacchi al fondo o caramellizzi.
Poi stendo la pasta, molto densa, in una teglia foderata di carta forno, zuccherata, faccio ancora asciugare e infine taglio e cospargo di zucchero.
Il tutto facendo molta attenzione ai ladri di pometti e conserve, naturalmente, velocissimi a scappare col bottino!
Qui la cattura del malfattore, da parte dei corpi speciali, ripresa dal satellite-spia.
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Ho un bellissimo Malus John Downie, che quest’anno mi ha regalato molte melette, che gli anglosassoni chiamano Crab Apple, come i frutti, in genere, di molti meli “ornamentali”. Ho fatto moltissime gelée con queste melette malmature anche a ottobre, e sottaceti. E, nel caso delle gelée, ho riutilizzato il residuo della colatura del succo per fare questa pasta, con la polpa passata e poi fatta restringere sul fuoco con zucchero e spezie a piacere. O con erbe. Non solo la pasta si può ottenere ma anche composte, da consumarsi a brevissimo, e quelle conserve che gli anglosassoni chiamano Butter o il più duraturo Cheese
L’estate si è stemperata in questo autunno dolce, di clima e frutta, venato di tanta nostalgia del nostro micio, che non abita più la sua valle se non per via dei nostri sguardi che lo cercano ancora, mentre il nostro cuore sa che agguata ancora le sfortunate arvicole ai piedi del muretto suo, sonnecchiando sotto a una thuya profumata e ai fiori azzurri, trovatelli come lui.
Gli alberi sono cresciuti: il coraggioso venostano vive in simbiosi, ormai, col muro di casa, e ci ha regalato le prime, ottime, albicocche. Colpite dalla grandine ma presto cicatrizzate e buonissime, molto appezzate dal canetto raccoglitore, questo buffo coso che ha imparato a saccheggiare le piante di lampone, di fragole, e pure ci prova con le albicocche, ai rami inferiori.
L’ottimo Malus John Downie, che quest’anno non ha avuto i problemi giovanili con gli afidi, si è espanso e ha prodotto tanti pometti deliziosi: viste le previsioni per le prime nevicate, quest’anno fin’ora due e leggere, ne ho raccolti moltissimi.
Cestini e cestini che ho trasformato in splendide gelée, alcune profumate di petali di rose raccolte in giardino, o di melissa, di rosmarino, altre arricchite di zenzero, uvetta, pezzetti di altre mele. Tutto uno sfaccendare tra schiumarole, pignattoni, e canetto pronto alla rapina, matto per la frutta com’è. E matto in genere, naturalmente.
Eccolo qui, il detto, che si è appena sfrugugliato una pianta di ribes con qualche frutto ancora appeso.
Che di nome fa come l’ultimo nome del nostro amato micio, Papo, Papo Sgnàpo per la precisione. Quel nome riecheggia ancora in valle, quando invano lo richiamo, il malnàtt, visto che scappa furbescamente nel pascolo vicino, e fa pure il bulletto con le quiete mucche, che non se lo filano. O che se appena si volgono, incuriosite, su di lui, son fughe preste a orecchie ad alzo zero e via di corsa al sicuro da mammà, prima del tutto ignorata.
O che fare quando sente il trattore sferragliante in arrivo, dal maso, a spargere letame o urina delle vacche, e parte a razzo? Cosa se non scapicollarglisi dietro, se non altro per esser vista da chi guida, di modo che si accorga di quel microbo palestrato, seguito da gesticolante femmina. Che sarei io, il suo capobranco, è chiaro. Che sbraita invano e lo brinca fortunosamente al volo, quando va bene, quando costui si lascia avvicinare, con aria manigolda e profumo che vi lascio immaginare, salvo poi atteggiarsi principescamente, come qui sul tronetto antistante le rose narrow waters.
Caro diario (diario si fa per dire), rieccomi.
Perché del titolo: primavera di giorno ed inverno di notte, con temperature anche di – 7°C rilevate alle sette del mattino dal termometro appeso al muro sud di casa, e in posizione protetta. Che dire?
Imbestialita, imbufalita.
Per i seguenti non pochi motivi, da sussumersi alla voce “sorpresi da gelo e (leggera) brina” + “Inverno te possino”:
1) Malus John Downie con gemme schiuse e foglioline,
2) Malus Red Jade un po’ meno aperto ma con foglie visibili,
3) Prunus Padus con fiore chiuso già delineato,
4) Malus Lizette, in posizione più protetta, con gemme totalmente aperte, fiori in boccio e foglie, rosso scurissimo, neonate,
5) Prunus cerasifera nigra con boccioli a fiore in pre esplosione,
6) Malus Ballerina venuto dalla terrazza di Venezia l’anno scorso: brava piantina, molto prudente: gemme attendono tempi sicuri,
7) Prunus Serrulata Royal Burgundy: altra brava piantina molto avveduta: gemme chiuse, ancorché frementi,
8) Albicocco venostano, quasi appoggiato al muro a sud di casa: tre fiori sbocciati. Insetti non pervenuti: presumo per sciarpe, berretto e guanti precocemente riposti nell’armadio stagionale.
Dico niente dei getti delle rose Narrow Water, così laboriosamente protette l’inverno.
Un grandissimo nervoso per quella quindicina di giorni post disgelo, in Marzo, ad alte temperature, che ha ingannato le mie piante, ingenue e meno ingenue, salvo rare eccezioni.
Sapevo che il recalcitrante inverno avrebbe tentato una sortita: ma che fosse così infìdo non l’avrei immaginato: dapprima giornate calde, quasi estive: lavorando in giardino son diventata, in brevissimo, color berlusconi versione pezzato-muratore, e poi, improvvisamente, gelido vento, nevicata a pochi metri di altitudine rispetto a noi, freddi notturni in notti stellate, cielo si tocca, suolo gelato, erba crepita sotto i passi.
Fenomenologia della settimana scorsa: di primo mattino i narcisi più alti accasciati a terra, esanimi ma in ripresa qualche ora dopo; foglie delle iris rizomatose come imbalsamate, altrettanto quelle dei tulipani Apricot Beauty. Cristallizzate le viole del pensiero, di regola resistentissime, ridotte come decori di un pasticcere maldestro,
idem le fragole e i muscari, quelli di rinforzo, appena comprati, accasciate pure le bellis perennis, anche queste di rinforzo, bimbe provenienti dal detto vivaio assieme alle viole del pensiero, ai muscari e ad altre personalità di spicco nel mio giardino, come gli alti Delphinium, i Lupini, le Digitalis.
Tutto cambia, fortunatamente, nello scorrere di poche ore e le dilette anime vegetative riprendono i sensi ai primi tepori del giorno, sorrette dai loro colori.
Ma non è consolante: per giorni ho imbacuccato il Malus John Downie, anzi notti, così come le rose Narrow Water e, pure, la Parkdirector Riggers. Col vento e da sola, il tessuto non tessuto che sventola come bandiera bianca/sciarpa di Isadora/mega pashmina impalpabile, è un gran casotto compiere questa operazione senza recare pregiudizio alle fragili gemme o alle foglioline appena venute alla luce. Stress sibila come il vento mentre m’industrio in questa operazione d’haute couture.
Così mi sono parzialmente consolata andando a fare un giro nel mio vivaio preferito: da Obojes a Valdàora, leggendario vivaio a quota proibitiva (1000 m. e a sbalzi climatici molto rischiosi).
Parzialmente, scrivevo, perché venivo informata delle gelate subite anche da loro: – 5° C mi diceva la signora Anna, rattristandosi con me per le piante rovinate e il danno subito.
Ma il vivaio, che bellezza quelle serre! Viole del pensiero, bellis perennis, le iris, i papaver orientalis e tutto quel ben di dio che i giardinieri chiamano erbacee perenni. Qui un minimo scorcio di un paio di bancali – tra gli infiniti – dedicati alle sole viole del pensiero.
E gli arbusti e gli alberi, appena tratti fuori dalle serre invernali. Una festa, insomma, nonostante le scaramucce del signor inverno in primavera.
Oh, non si creda che io sia una di quelle perdigiorno che si smarrisce nei vivai, eh! Da Obojes sono rigorosissima nel rispetto dei tempi: so quando arrivo, so quando riparto, ben oltre l’ora di chiusura, e ci vogliono, per indurmi a lasciare la postazione, non dico gli idranti ma quasi.
Domani, mi riprometto, scriverò delle neonate Scilla siberica, di crocus, di viole del pensiero, di cui alcune sono sopravvissute all’inverno a – 30°C ed altre han fatto i piccoli, già in fiore ai primi tepori.
E dei bellissimi Tulipa pulchella, che ho provato a lasciare nel terreno con ottimo risultato!
Senza dimenticare le progenie dei lupini blu violetto della val Casìes.
E dei nuovi clienti nei ristorantini fly-in: i verdoni. E della cincia mora!
Quante cose! Mi sa che scriverò a rate altrimenti chi lavorerà al mio posto, in giardino, con tutto quel che c’è da fare?
Qualcuno, a onor del vero, si è offerto di scrivere per me.
Non molla la penna e fa risolutamente il pennuto, pare che intenda mimetizzarsi per aver buon gioco con quei nuovi ospiti del ristorantino fly-in di cui vorrebbe così tanto occuparsi. Personalmente, dice.
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